“Paura morbosa, angoscia eccessiva e ingiustificata, provata dal soggetto in situazioni specifiche o in presenza di oggetti specifici, che normalmente non la giustificano razionalmente. Pur rimanendo il più delle volte cosciente della sproporzione della sua reazione emotiva rispetto alla sua causa e pur criticandola, il paziente fobico si trova nell’impossibilità di dominarla ed è tipicamente costretto ad adottare comportamenti e strategie, anche complessi, al fine di evitare il contatto con la situazione o con l’oggetto temuti (condotte di evitamento)”
Questa è la definizione di “fobia” secondo il Dizionario di Medicina della Treccani.
Ma c’è qualcosa che va oltre le definizioni. Ci sono i racconti di chi prova un malessere tanto grande, eppure così tanto sminuito. Ed io che ho una buona penna ho deciso di raccontare un’esperienza così fresca da sentire ancora i brividi sulla pelle.
Benché io stia scrivendo su un portale di medicina, ci tengo subito a precisare che non sto parlando in qualità di medico (anche perché non lo sono!), ma in qualità di ornitofoba. Eh si lo so, la “paura degli uccelli” si presta a tantissime battute da spogliatoio. Battute che per prima fanno ridere me. Ma oggi non ho riso, per niente.
Questa mattina, come tutte le mattine, ero in redazione a lavorare. Quello che di solito è un porto di mare, tra gente che viene e che va anche solo per un saluto, oggi era un deserto. C’ero solo io e, non avendo appuntamenti in agenda, sapevo che sarei stata sola tutta la giornata.
Il mio ufficio si trova al primo piano di un palazzo che di piani ne ha due. La finestra del palazzo al mio piano era aperta, quella al secondo piano chiusa. Ebbene, un uccellino entra dalla finestra del mio pianerottolo e si avvia al piano di sopra restando di fatto intrappolato, in quanto tentava di uscire dalla finestra sbagliata, quella chiusa.
Sapevo benissimo di essere in un ufficio chiuso e, quindi, “protetto”. Quell’uccellino mai avrebbe potuto entrare nella redazione, eppure quel suo cinguettio insistente e quel battito d’ali verso la finestra chiusa mi ha paralizzata, fino alle lacrime.
Si, ho 34 anni, sono sposata, dirigo un giornale. Eppure piangevo come una bambina terrorizzata. Ecco cosa fa una fobia: trasforma in dramma quello che non è neppure un problema.
Non mi vergogno a dirlo (o forse si, ma è quello che ho fatto) ho chiamato in lacrime mio marito (sant’uomo davvero!) perché, benché quello veramente in gabbia fosse l’uccellino che non aveva mezzi per capire che doveva uscire dalla stessa finestra dalla quale era entrato, ero io quella imprigionata in un appartamento.
“Se qualcuno non viene a liberarmi io non uscirò da questo ufficio”
Non ho detto che casa mia dista 35 km dall’ufficio, non proprio dietro l’angolo. E così mio marito ha provato a spiegarmi che quella povera bestiola non mi avrebbe potuto fare nulla di male. Ed io razionalmente questo discorso lo capivo, ma più tentava di tranquillizzarmi, più tremavo e piangevo.
Si è così messo in macchina e ha fatto 70 km (35 ad andare e 35 a tornare) solo per aprire una finestra e lasciar libero quell’uccellino. E liberare così anche me. E giù ancora lacrime per i sensi di colpa nei confronti di chi ha dovuto stravolgere i suoi piani per un uccellino. Non solo.
Questa fobia mi ha portato addirittura a chiamare il mio capo per chiederle di pregare le signore delle pulizie di non lasciare più aperte le finestre. 34 anni, sposata, direttrice di un giornale. Che umiliazione.
Le fobie sono questo. Sono umilianti, invalidanti, paralizzanti. Non importa quanto sia sciocco il motivo che le scatena. Le fobie rendono persone che fino ad un attimo prima erano libere ed indipendenti, in agnellini al cospetto di un lupo che agli occhi del mondo è solo una formica. Persone che hanno tutti i mezzi per poter prendere a morsi la vita, paralizzate al punto da implorare la liberazione.
Riderci su fa bene, fa bene anche a noi. Ma non deridete mai chi soffre di una qualsivoglia fobia, non sminuite quello che viene percepito come un macigno solo perché, nella realtà, è solo un sassolino.





